martedì 9 novembre 2010

Life after football

Quando un grande si ritira, un po' di storia della sua squadra va in pensione con lui. Va rimpiazzato prima in campo poi, più difficile, nel cuore dei tifosi ai quali ha regalato anni di football giocato con passione e dedizione, nonostante in tutto e per tutto sia stato un semplice percorso professionale. Quando parliamo di quelli veramente grandi c'è il ritiro della maglia, l'introduzione nella Hall of Fame, una maturità e una vecchiaia auspicabilmente serene fra figli, nipoti, qualche cerimonia, qualche intervista.

Vediamo Marino, Elway e Kelly in giro per il mondo a fare beneficienza. Vediamo Emmitt Smith e Jerry Rice mattatori del noto Dancing with the Stars.

Non va sempre così. A volte si pagano errori, compagnie sbagliate, fiducia mal riposta, abusi di vari tipi di sostanze dalle quali, onestamente, ci si poteva anche tener lontani.

A volte no.
Può accadere semplicemente di dover pagare una scelta dai suoi inizi, anche inconsapevoli. Di dover pagare la scelta di giocare a football.

Tre storie, con spunti per approfondimenti.

Mike Webster era veramente una leggenda. Senza nemmeno pensarci, il miglior centro a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Quattro SuperBowl vinti con i Pittsburgh Steelers, pluriconvocato alla partita delle stelle, introdotto dal 1997 nella Hall of Fame. In campo era una specie di documentario vivente, il centro a cui ispirarsi. Preciso, affidabile, tecnico, potente, pulito. Uno di quei leader silenziosi nello spogliatoio di una squadra. Visto come esempio da tutti i compagni. Iron Mike.
Dopo anni di football a quel livello, Webster pare deteriorarsi per gradi.
Le articolazioni non lo tengono, troppi dolori. Farmaci a pioggia. La sua colonna vertebrale presenta tre ernie e due dischi in sofferenza. Ma questo sembrerebbe, quasi, solo una malattia professionale. Ma tra i farmaci ci sono anche sostanze psicotrope per tenerlo calmo. Ansiolitici. Antidepressivi.
Per riposarsi, per cercare di staccare per un po' dai dolori usava su se stesso un taser gun, praticamente un'arma per autoindursi un elettroshock che gli facesse perdere conoscenza.
Parole di Garret, suo figlio: "Stava troppo male per venire alla festa dei miei dieci anni. Nemmeno telefonò, e ci rimasi malissimo. Ora so"
Webster viene trovato morto il 24 gennaio 2005 a Pittsburgh, in una stanza d'albergo, alla fine di un periodo tragico in cui a volte dimenticava anche di nutrirsi e dormiva in un furgoncino.
Il suo tessuto cerebrale era in uno stato incompatibile con l'età anagrafica, 50 anni.
Tecnicamente si parla di CTE, Chronical Traumatic Encephalopathy. Il numero enorme di microtraumi (nemmeno troppo micro) accumulati nel tempo presenta il conto, se non ci si rende conto che alcuni campanelli d'allarme (perdite di memoria, occasionali ritardi cognitivi, dolori ricorrenti) devono essere rispettati, professionismo o meno.

Dave Pear è stato un onestissimo giocatore. Non una stella. Giocava in linea di difesa con gli Oakland Raiders, quando la loro difesa faceva veramente la differenza. Una difesa che li portava a vincere anche i campionati. Oggi Dave Pear riesce a malapena a tenersi in piedi.
E avverte: "Non permettete ai vostri figli di giocare a football".
Parla con rabbia. Ha dolori sempre e ovunque. Può fare una passeggiata ogni tanto, un sonnellino, andare a fare un po' di terapia. Basta. Passa il tempo leggendo la Bibbia. Vertigini, perdite di memoria. Otto interventi di chirurgia spinale. Gli ultimi due anni ai Raiders furono devastanti. Disse di esser stato implicitamente costretto a giocare infortunato, con un'ernia cervicale in essere. Ora nè la lega nè l'associazione giocatori si curano di lui e dei molti veterani in condizioni simili. Quarantamila dollari annui a partire dal 2009. Non bastano per le cure.
"Ci sono persone che stanno molto peggio di me. Lottiamo per un sogno, quello di diventare giocatori professionisti. Poi si trasforma in un incubo. Ci serve aiuto"
Puoi giurarci, Dave.

La storia più dura di tutte parla di un ragazzo che non ha mai giocato fra i professionisti, che forse non ci sarebbe mai neppure arrivato vicino.

Owen Thomas era un giocatore di linea difensiva in in college più studio che football. Giocava con i Pennsylvania Quakers, Defensive End, numero 40. Nell'aprile di quest'anno viene trovato senza vita nella propria stanza, nel campus.

Owen Thomas si è impiccato a ventuno anni.

Non soffriva di depressione, buon giocatore, bravo negli studi. Si sarebbe detto un ragazzo a posto.
Gli approfondimenti medici hanno stabilito che Thomas aveva problemi neurologici latenti. Anche qui, lo stato del suo cervello non era quello di un atleta ventenne. Ma questa storia fa un po' più male per un semplice motivo. Owen Thomas ha pagato con la vita solo la sua scelta di voler giocare a football, forse nemmeno con aspirazioni di professionismo. Il suo cervello è stato deteriorato a causa di un enorme numero di urti "subconcussional", ovvero di normalissimi contatti casco contro casco, casco contro spalla, o gomito, o braccia, o ginocchia, o qualsiasi cosa ci possa colpire mentre giochiamo a football durante ogni normalissima e maledetta azione. Colpi ripetitivi che possono causare danni cumulativi, permanenti. Anche qui CTE. Sua mamma ha donato il suo cervello a chi possa studiarlo, per prevenire, magari anche solo per diminuire questi danni atroci. Un ragazzino mette casco e paraspalle a partire dall'età di quattordici o quindici anni. Se arriva al college football, ha già incamerato qualche migliaio di questi colpi. E poi si sale di livello. Si gioca contro quelli veramente grossi. E se si arriva nei pro, oltre alla massa entrano in gioco forza e velocità quasi vicine ai limiti fisici dell'uomo.

Questo continua ad essere il mio sport preferito, ma ogni tanto devo fermarmi e pensare.

Le storie di questi tre giocatori, presi a titolo esemplificativo in un campionario non così limitato, purtroppo
Mike Webster: A tormented Soul

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